La maginifca opera eburnea, eseguita nel terzo decennio del XVII secolo dallo scultore bavarese Georg Petel definito il “Michelangelo tedesco” che, nella sua troppo breve esistenza, produsse opere dalla straordinaria qualità di gusto tardo-manieristico e proto-barocco, è documentata da una approfondita ricerca datata 1972 condotta dallo studioso e storico Francesco Negri-Arnoldi della quale riproponiamo i passaggi più signifcativamente esplicativi per una
corretta collocazione storico-artistica e cronologica dello straordinario Corpus Christi: « L’anno 1622 venne Giorgio Bethle da “Roma in Genova, dove fu introdotto a G.Battista Poggi, la cui protezione molto giovolli. Perciò avendo il Poggi osservati alcuni lavori di costui in avorio; conobbe che egli era un buon Artefce; onde il propose ad alcuni cavalieri di questa città, e principalmente al sig. Francesco Zoagli,
per cui molto il Bethle opera. Tacer non debbo due immagini del Crocifsso fattegli in avorio, le quali tanto squisite riuscirono, che certamente in Italia poche ve n ‘ha eguali e niuna superiore. Elle si conservano presso gli eredi di questo medesimo cavaliere »
Così scriveva nel 1674 Raffaele Soprani nella breve biografa dello scultore tedesco, delle, per l’attività svolta da costui a Genova, voile inserire tra le «
Vite » degli artisti genovesi. Di tale attività del Petel non resta tuttavia altra memoria, nè sino ad oggi
ci erano noti esempi della sua produzione del tempo all’infuori del grande Crocifsso eburneo di Palazzo Pallavicino di Genova (siglato G.B. sul retro del
perizoma) che, sulla scorta delle notizie fornite dal Soprani e dalla posteriore letteratura locale, si e creduto poter identifcare con uno dei due eseguiti dallo scultore tedesco per Francesco Zoagli.
Questo viene infatti a documentare chiaramente un altro capolavoro sinora ignoto dello scultore tedesco, un altro grande Crocifsso eburneo, che per le sue caratteristiche tipicamente peteliane e per la sua provenienza dalla dimora di antica famiglia genovese, potrebbe essere identifcato con il secondo dei
due Cristi in avorio ricordati dal Soprani come eseguiti dal Petel per il Cavalier Zoagli.
Tale opera, che si avvicina al Crocifsso Pallavicino per le dimensioni (em. 49 di alt.), per lo schema iconografico (Cristo agonizzante con il volto rivolto in alto a sinistra e i piedi infissi da un solo chiodo) e per altri caratteri stilistici, si distingue invece da quello per qualita tecniche e formali che si pongono, non come negazione, ma come logico, naturale sviluppo del le premesse stilistiche del precedente.
E’ infatti evidente nel nostro Crocifsso, rispetto a quello PalIavicino, un’accentuazione violenta dell’espressione patetica, con più insistente e penetrante studio del particolare anatomico, e più spietata analisi realistica, spinta sino al dettaglio macabre e raccapricciante. E questo mediante l’uso di una tecnica dell’intaglio assai più avanzata e che tocca l’apice del virtuosismo nella minuziosa
descrizione del piccolo teschio ai piedi del Cristo, di Cui si possono davvero contare tutte le ossa. Ciò che richiama appunto la « maniera » dei più celebri capolavori dell’arte matura del maestro. Nel contempo e innegabile qui maggior peso della componente italiana, quanto mai evidente ad esempio nello sforzo di raggiungere, attraverso il contrapposto, Ia torsione e Ia tensione musco!are della figura, una struttura
rnichelangiolesca, e, per altro verso, mediante il tormentato modellato e gli effetti luministici, un pittoricismo di tipo berniniano. Elementi e caratteri tutti
che smentiscono in pieno le passate attribuzioni dell’opera: dalla prima, tradizionale familiare, al Giambologna, all’altra più recente allo scultore francese La Croix, e a quella, per così dire ufficiale, ad artista fammingo « della seconda meta del secolo XVII», con la quale il Crocifsso figurava al‘Esposizione di Arte Sacra di Torino del 1898. Attribuzioni queste tutte egualmente errate, ma anche indicative, poichè Ia prima, al Giambologna, sembra voler risalire all’origine di quel tipo iconografco del « Cristo vivo »
da cui il nostro Crocifsso indubbiamente discende, la seconda, al La Croix, coglie gli effetti immediati dell’attività genovese del PeteI (come
ben mostra il Crocifsso di La Croix a Palazzo Rosso, che deriva indubbiamente da quello del Petel qui presentato), e l’altra, a maestro fammingo
della seconda meta del XVIII secolo, ne rileva il carattere nordico e il concetto gia pienamente barocco, apparentemente inconciliabile con una data precoce come il 1622-23. E’ quest’ultimo d’altronde il
caso di molti altri prodotti analoghi della prima meta del Seicento, ma che ancor oggi vengono comunemente datati al sec. XVIII …
L’attribuzione a Georg Petel di questa secondo Crocifsso genovese mi sembra pertanto assai piu convincente. Essa poggia d’altronde sul riscontro di indiscutibili analogie e precise corrispondenze con opere riconosciute dal maestro tedesco, come ad esempio il citato Crocifsso eburneo della Camera del Tesoro della Residenza di Monaco, ove ritroviamo
tra l’altro il modo singolare di piantare il chiodo alla radice delle dita del piede, il tipico arricciamento serpentino delle ciocche di capelli sulla spalla, Ia crudele maschera del volto stravolto all’ indietro in uno
spasimo doloroso che meglio converrebbe in verità al disperato sforzo di un Laocoonte (certamente una delle fgure che maggiormente impressionarono il Petel a Roma), piuttosto che alla rassegnata agonia
del Redentore. …”
Nonostante il quasi mezzo secolo trascorso dalla ricerca di Negri Arnoldi le nuove conoscenze e mostre intercorse, riteniamo ancora assolutamente attuale, precisa e circostanziata la lettura critica e storica dello studioso che ci sentiamo di accettare e proporre.
Vedi: “ARTERAMA” Mensile di arti e scultura, numero 4-5 anno IV
Aprile-Maggio 1972
Cfr. : “Van Dyck e il Cristo spirante” a cura di Luca Leoncini e Daniele
Sanguineti, Museo Palazzo Reale Genova 2012
“Diafane Passioni. Avori barocchi dalle corti europee.” a cura di Eike D.
Schmidt e Maria Sframeli Ed. Sillabe Firenze 2013