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Antonio Susini (1558-1624)
Cristo crocifisso

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Descrizione

Antonio Susini (1558-1624) Cristo crocifisso

scultura in bronzo fuso su modello di Jean Boulogne, detto Giambologna (Douai 1529 - Firenze 1608), cm 23,5x21.La rinomata bottega gestita a Firenze dal celebre scultore fiammingo Jean de Boulogne, detto Giambologna, giunto a Roma intorno al 1550 e dal 1561 al servizio del principe Francesco I de’ Medici, fu responsabile di una straordinaria attività monumentale in marmo e bronzo come pure di una vasta, raffinata produzione di lavori di piccole dimensioni che contribuirono ad alimentarne la fama presso le corti di tutta Europa: fantasiosi bronzetti di soggetto profano, ma anche devoti crocifissi in metalli preziosi e in bronzo. Una produzione della quale è testimonianza eloquente l’esemplare qui indagato (fig.1-11), concepito per un ricco altare o un raffinato tabernacolo domestico, che interpreta uno dei più eleganti e fortunati modelli del maestro con una squisita raffinatezza tecnica ed espressiva tale da chiamare in causa un collaboratore particolarmente fedele e qualificato, Antonio Susini. Rimasta a margine negli studi sull’artista, seppure attestata dalle fonti, proprio la produzione di piccoli crocifissi per la devozione privata e l’ornamento degli altari, spesso frutto di committenze illustri, accresciuta quando fra i Medici si instaurò la consuetudine di inviarli come doni diplomatici – nella quale intervennero collaboratori e allievi specializzati nella lavorazione del bronzo (Adrian De Vries, Antonio Susini, Gasparo Mola, Egidio Leggi e Pietro Tacca) –, è stata di recente oggetto di un’attenzione critica specifica, recepita in modo significativo anche dal collezionismo internazionale. Nella seconda metà del Cinquecento il tema del 'Cristo crocifisso’ era tornato ad avere un ruolo centrale nella riflessione teologica suscitata dalla Controriforma che lo privilegiò composto nel dolore, col capo reclinato e gli occhi serrati dalla morte, ma anche con lo sguardo implorante rivolto verso il cielo nell’istante del trapasso: si realizzarono così manufatti preziosi, perlopiù destinatati al culto privato, in linea con le indicazioni del Concilio di Trento (1545-1563) auspice di un rinnovamento della fede e della tradizione figurativa secondo precisi precetti e norme iconografiche. Del 'Cristo sulla croce’, Giambologna quarantenne, partecipe del clima contro-riformistico radicato nella corte granducale fiorentina, offrì un primo magistrale saggio nel piccolo Crocifisso in bronzo dorato per la cappella Salviati in San Marco (fig.13) destinata ad accogliere le reliquie di Sant’Antonino, una delle più prestigiose commissioni dell’artista ottenuta col benestare del Granduca, avviata nel 1579 e portata a termine nel 1589. In quest’opera lo scultore elaborò un nuovo modello di 'Cristo morto’, qualificato da un’anatomia indagata con scienza e sensibile a un ideale di bellezza classica avvolta in un vibrante modellato pittorico, espresso in virtù di un’accurata cesellatura che svela i muscoli, le vene, i nervi e l’andamento fluente dei capelli. Si tratta di un’immagine che verrà reinterpretata negli anni successivi in opere di scala differente, anche monumentale come il maestoso Crocifisso donato da Ferdinando I al duca di Baviera, commissionato nel 1593 e due anni dopo trasportato a Monaco dove si conserva nella chiesa di San Michele, replicato per la propria cappella funeraria alla Santissima Annunziata (1594). La più antica ed eloquente attestazione di una produzione in serie di crocifissi di piccole dimensioni nella bottega del Giambologna è contenuta in una lettera indirizzata nel 1583 al duca d’Urbino dal suo agente a Firenze, Simone Fortuna, che, lodate le qualità dello scultore, “mirabile” in questa attività, ricordava – oltre a quattro esemplari “tenuti stupendi”, eseguiti per papa Pio V (dunque prima del 1572), il granduca Francesco I, la consorte granduchessa Giovanna d’Austria (identificabile con quello donato nel 1573 alla Santa Casa di Loreto, ora nel Museo dell’Antico Tesoro), e il re di Spagna (forse da riconoscere nel simile Crocifisso oggi all’Escorial) – di aver visto “modelli” grandi poco meno di due palmi (intorno ai 40 centimetri) da realizzare “d’argento, di bronzo o di rame”. In una precedente missiva del 1581 lo stesso Fortuna aveva descritto le modalità adottate per i lavori in metallo di contenute dimensioni dal Giambologna, che “fatti i modelli di cera o di terra, che si fan presto, di sua mano” dava “nel medesimo tempo a far le forme, il getto (fusione) et a ripulirle poi agli orefici che tiene apposta”, tra i quali a questa data i documenti attestano impegnati in simili mansioni Adrian de Vries e Antonio Susini. La produzione giambolognesca di Crocifissi piccoli, perlopiù di altezza pari a mezzo braccio fiorentino (circa cm 29), in bronzo, bronzo dorato, argento, raffiguranti il 'Cristo morto’, è raggruppabile in tre principali tipologie che prendono il nome dagli esemplari più rappresentativi. La più antica, di timbro michelangiolesco, è riconducibile all’esemplare in argento donato nel 1573 alla Santa Casa di Loreto. La seconda, nella quale il Giambologna si esprime con maggiore originalità, è quella formulata nel rammentato Crocifisso in bronzo dorato per la cappella Salviati in San Marco (fig.13). Una terza tipologia, quasi identica alla precedente dalla quale si distingue per il torace più inarcato e un diverso andamento del perizoma, prende nome dal Crocifisso in bronzo patinato al Musée de la Chartreuse di Douai (fig.17). Il Crocifisso qui indagato, notevole nella sensibile finitura delle superfici e nella minuziosa, vibrante rinettatura dei dettagli, è riconducibile alla tipologia San Marco-Angiolini (fig.14,15), che si qualifica per l’anatomia asciutta e vigorosa del corpo snello, coperto da un teso perizoma annodato sul fianco destro, il capo reclinato sulla spalla, dove una folta chioma di riccioli ondulati ne contorna il nobile volto ricadendo delicatamente sulle spalle, le ginocchia flesse e affiancate, il piede soprammesso. A questo stesso modello appartengono due eccellenti esemplari in argento, uno dei quali, già presso la galleria torinese Antichi Maestri Pittori (fig.19), riferito da Keutner (1999) a Giambologna e identificato con quello pagato nel 1592 dal segretario granducale ad Antonio Susini, l’altro nel Museum of Fine Arts di Boston (fig.20), anch’esso attribuito al maestro fiammingo con una datazione al primo decennio del Seicento. Tra gli altri esemplari di questa tipologia, tutti di analoghe dimensioni, si distinguono inoltre due redazioni in bronzo dorato, una nel Museo Diocesano di Arte Sacra di Volterra (fig.22), probabilmente commissionata dopo il 1581 dall’ammiraglio Jacopo Inghirami, l’altra presentata da Sotheby’s a Londra (9 dicembre 1993) (fig.23), e due in bronzo patinato transitate sul mercato antiquario (Sotheby’s, Londra, 7 luglio 2006 (fig.25), una delle quali attribuita ad Antonio Susini (Sotheby’s, Londra, 8 luglio 2009 (fig.26). Le opere ricordate condividono tutte con quella in esame specifici aspetti esecutivi, riscontrabili nell’accurata cesellatura dei capelli e dei tratti del volto, nella minuta definizione degli arti, e soprattutto nella resa ricercata del perizoma, solcato da tese pieghe occhiellate, impreziosito da una bordura sfrangiata (fig.9-11), peculiarità quest’ultime che sembrano indicative di un’autografia specifica. Sono, dunque, proprio tali caratteristiche tecniche ed espressive, che segnano un apice qualitativo nell’ambito dei modelli seriali giambologneschi, a consentirci di riconoscere nella cerchia dei collaboratori e seguaci del maestro fiammingo la mano di Antonio Susini, l’assistente e poi erede più accreditato di Giambologna nella realizzazione di piccoli cesellatissimi crocifissi, come già suggerito su basi archivistiche per l’esemplare torinese e come conferma la simile rinettatura riscontrabile nel 'Cristo vivo’ in bronzo dorato del convento madrileno delle Descalzas Reales (fig.27-28), completato nel 1603 dal Susini. Nella fedele aderenza al prototipo giambolognesco si osserva, nei crocifissi e più in generale nei bronzetti realizzati dal Susini, rispetto a quelli riferibili ad altri collaboratori, un’algida eleganza nella modellazione dei panni, condotta con ritmi lineari segmentati e superfici appiattite, così come una certa composta stilizzazione dei tratti fisionomici ed una più contenuta esuberanza plastica nel cesello di barbe e capelli, ma anche una specifica abilità nella 'politura’ delle superfici, capace di renderle così levigate da apparire quasi traslucide. Entrato nello studio di borgo Pinti nel 1573, dopo un apprendistato presso il bronzista Felice Traballesi, è proprio Antonio Susini, verosimilmente il “giovane” menzionato dal Fortuna nel 1581 come “già in grado di molta eccellenza”, a specializzarsi nella fusione e nella rinettatura delle statuette in bronzo e dei piccoli crocifissi del maestro, come attesta la cesellatura del superbo Crocifisso in bronzo dorato destinato alla cappella Salviati in San Marco, portato a termine nel 1589, al punto “da diventare, per così dire, la sua mano operativa, traducendo le sue invenzioni e i suoi modelli in bronzo e in argento con sensibilità e precisione straordinarie”, tanto che, come osserva Herbert Keutner (1999), “anche se le opere furono materialmente gettate o rifinite da Antonio, lasciarono l’officina del Giambologna, a pieno diritto, come proprietà artistica del capomaestro”. Fra il 1582 e il 1601, il Susini realizzò almeno nove Crocifissi in argento da modelli del maestro “per donare” o “per mandare a Roma”, e, dopo essersi messo in proprio al principio del nuovo secolo, continuò a produrne sfruttando i modelli del Giambologna. Nel 1609 l’inventario dei beni di Lorenzo di Jacopo Salviati, presenti nel palazzo fiorentino di via del Corso, annotava due crocifissi di bronzo con croce d’ebano, uno di mezzo braccio e l’altro di un quarto di braccio, come lavori “di mano di Antonio Susini”, il quale, ancora nel 1621, riceveva dalla corte gonzanesca di Mantova la commissione di ben dieci crocifissi, “cinque vivi e cinque morti”. Di tale impegno, inoltre, conserva suggestiva memoria la biografia redatta sulla fine del secolo da Filippo Baldinucci, ricordando che lo scultore “aveva nella sua stanza due gran cassoni da bicchieri, ne’ quali solea depositare tutte l’opere sue finite, e quando si portavano da lui religiosi, o secolari d’ogni paese, stato, o qualità (de’ quali aveva sempre molti attorno) e domandavagli un Crocifisso di tale, o tale grandezza, o altra figura, il Susini cheto cheto lasciava il lavoro, andava al cassone, pigliava la figura, e mostravala loro, dicendoglene il valore”.Firenze, 21 gennaio 2014 Alfredo Bellandi
Ulteriori informazioni
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mar 26 Maggio 2015
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