Autentico scrigno di tesori

Tra i luoghi d’arte ingiustamente poco noti e frequentati della nostra città, il triste primato spetta probabilmente al Museo dell’Accademia Ligustica di Belle Arti.
La disaffezione dei genovesi per i luoghi che conservano le vestigia di un glorioso passato rappresenta anch’essa un malinconico aspetto dell’odierna decadenza da cui la città fatica a risollevarsi. La misura di ciò si coglie anche nelle difficoltà che questo museo cittadino incontra, per la scarsità di adeguati finanziamenti e sovvenzioni, nella spesso drammatica lotta per la sua stessa sopravvivenza.
Non è naturalmente il solo a dibattersi in mezzo a queste difficoltà, basti pensare alle recenti vicende del Carlo Felice e in generale alle difficili gestioni comuni a tutti i luoghi d’arte e di cultura genovesi. Ma se si pensa in particolare ai modi in cui l’Accademia Ligustica venne istituita, l’attuale situazione rispecchia fedelmente l’enorme distanza che separa il sentimento d’appartenenza alla propria città dell’establishment odierno rispetto a quello del passato. Nata nel 1751, esclusivamente come scuola delle tre arti, su iniziativa di un gruppo di artisti, con il sostegno del patriziato genovese, è agli inizi del secolo successivo che il progetto si estende alla costituzione d’una vera e propria pinacoteca, in parte per ovviare alla persistente mancanza a Genova, in quel tempo, d’una qualsiasi struttura museale pubblica, in parte per trovare un luogo ove ospitare opere provenienti dalle molte chiese soppresse in epoca napoleonica. Ma è soprattutto con l’elezione a segretario di Marcello Durazzo, colto amatore e collezionista, avvenuta nel 1823, e con la successiva collocazione dell’istituto nell’attuale sede del palazzo costruito nel 1831 da Carlo Barabino, che il progetto di allestimento della pinacoteca prende effettivamente corpo, grazie soprattutto a una vera e propria gara di generosità e liberalità civica, che vede i maggiorenti cittadini elargire donazioni e lasciti, come oggi sarebbe difficile anche solo immaginare. Al di là di queste doverose e amare considerazioni sullo spirito che animava quella società al confronto di quanto si verifica ai giorni nostri, almeno un caldo invito a visitare la straordinaria rassegna di pittura ospitata nel museo sembra quanto mai opportuno rivolgere a chi, pur nutrendo interesse per le arti figurative, si fosse fino a oggi privato tuttavia del piacere d’ammirare i veri e propri capolavori in esso contenuti. Sarebbe un modo per ravvivare l’interesse attorno a questo museo come auspicio per un futuro migliore. Venendo alla visita, posto che qualunque artista, di qualsiasi epoca o nazionalità, ha prodotto opere più o meno riuscite a secondo dei momenti di maggiore  o minore disposizione creativa, di alcuni tra i più importanti pittori genovesi  del passato è assai difficile rendersi conto della vera dimensione artistica, senza aver preso visione di alcuni loro dipinti che si trovano in questo museo.
A cominciare da Luca Cambiaso di cui è possibile ammirare la delicata poesia  del correggesco Riposo durante la fuga in Egitto, appartenente al suo momento più felice, e la drammatica raffigurazione di Cristo portato dinnanzi a Caifa, di grande suggestione negli effetti notturni di controluce generati dai bagliori delle candele.
E restando ai pittori di cui, quasi solo nelle opere possedute da questo museo, è possibile ammirare le massime potenzialità espresse, va anzitutto segnalato Giovanni Andrea De Ferrari, le cui cose migliori sembrano, per chissà quale combinazione, essersi raggruppate in questa quadreria come in nessun altro luogo. Tra le ben sette gemme appartenenti a varie fasi della sua attività, va soprattutto menzionata la grande tela raffigurante San Placido che risuscita un muratore caduto, proveniente dalla distrutta chiesa di San Benigno, momento d’intensa partecipazione alla vicenda umana, così palpitante di verità e di vita, di questo artista dal linguaggio scarno e sincero, poco incline all’esibizione di orpelli virtuosistici.
Analoga speciale citazione merita qui Domenico Fiasella, artista, anche per il frequente utilizzo di collaboratori, forse più d’altri discontinuo, del quale l’Accademia Ligustica possiede tre vertici assoluti come la giovanile Madonna con Bambino e san Giovannino tra san Giorgio e san Benedetto, e le più mature Morte di Meleagro e Sacrificio d’Isacco.
Per quanto riguarda Bernardo Strozzi, il più celebrato tra i nostri pittori, è possibile seguire, attraverso una sequenza di cinque assoluti capolavori, il percorso evolutivo che, dal persistere di spunti manieristici dei primi anni genovesi, attraverso esperienze in chiave caravaggesca, giunge a quegli esiti di esuberante ricchezza cromatica che gli guadagnarono il primato assoluto in una città di grandi tradizioni artistiche come Venezia. Di questo straordinario artista, irrinunciabile è soprattutto la conoscenza di quanto resta oggi a testimonianza della sua decorazione ad affresco del coro della più vasta e decorata, in quel tempo, chiesa di Genova, e che costituisce la maggiore perdita patita dal nostro patrimonio artistico a causa di vicende politico-urbanistiche. Il grande tempio, già sconsacrato in epoca napoleonica, venne infatti demolito nel 1821 per fare spazio al costruendo teatro intitolato a Carlo Felice di Savoia, divenuto in quell’anno re di Sardegna. Il grande “modelletto” superstite, raffigurante il Paradiso, approntato dallo Strozzi in preparazione del grandioso affresco, rappresenta senz’altro uno dei massimi capolavori della pittura genovese, oltre a essere documento visivo d’un evento artistico epocale, per il quale il pittore venne remunerato con la cifra, stratosferica per quei tempi, di ben 2000 scudi.
Del più maturo periodo barocco medioseicentesco infine, soprattutto destinata a persistere nella memoria è la dolce poesia e la raffinata delicatezza cromatica di opere come la Sacra Famiglia con san Giovanni di Valerio Castello e il Baccanale di putti e fauni di Domenico Piola.

Camillo Manzitti