“Il dipinto raffigura un episodio di storia antica non ben identificabile, e che proprio per questo diviene presumibilmente un pretesto allegorico sulle virtù romane della povertà e dell'onore; la scena infatti ricorda vicende come quello di Cincinnato, o di Attilio Serrano, narrate da Valerio Massimo, i quali, ritiratisi a vita agreste, vengono richiamati dai messi di Roma per tornare a difendere la patria in armi.
Si tratta, a mio avviso, di un'opera tipica di Giuseppe Heintz il Giovane, il pittore tedesco che grande fortuna conobbe presso i collezionisti veneziani del Seicento per i suoi dipinti in cui, a dirla col Boschini (1660), ‘El forma legiadrete figurine/ con grazia tal, che quasi la Natura/ invidia in certa parte ogni figura.../ L'opera stravaganze e bizarie/ de chimere, de mostri, e d'anima-li: de bestie, de baltresche, e cose tali/ trasformae, reformae de testa a pie’.
Anche qui, difatto, il formicolare innumere dei personaggi entro il paesaggio di vasto respiro, l’accostamento irriverente e provocatorio di quei brani che potremmo definire ‘di genere’, come la mandria di pecore transumante, i buoi, i cavalli dei soldati, gli scherzi dei bambini, alla gravità moralmente impegnata del soggetto da ‘grand goût’, testimoniano di quella frizzante carica umoresca, di quella ‘verve’ che mai abbandonò il tedesco. Tutti i suoi dipinti, del resto, abbandonando la tendenza semplificatoria della pittura di storia, quella cioè di poche e grandi figure colte in atteggiamenti retoricamente significativi, non conoscono un vero e proprio nucleo narrativo o drammatico, disperdendosi nella gran varietà di piccole figurine, ognuna intenta alle sue occupazioni particolari. (…)”