Dopo l’ossessivo ricorso alle stampe cinquecentesche degli esordi, Ceresa si rivolse intorno agli anni Trenta alla lezione di Daniele Crespi, scomparso in seguito alla peste, portando a maturazione un linguaggio originale e autonomo e tuttavia estraneo alla penetrazione delle novità barocche in territorio bergamasco. Come già sottolineava Roberto Longhi, proprio questo ruolo di “pittore di argine” lo rese unico e, se talvolta rifiutato dalla committenza ecclesiastica più esigente, ricercato dall’aristocrazia e dalla nobiltà locali che deliziava con riuscitissimi ritratti alla moda. Accanto ad una galleria penetrantissima di ritratti, spicca la produzione a sfondo religioso che lo impegnò fino alla morte, avvenuta nel 1679, e che incontrò la sua convinta e personale adesione di fede. Pervasa da un forte fervore religioso è anche questa grande tela che viene ad arricchire oggi il suo catalogo. Qui, la composizione si sviluppa in verticale stipando la figura monumentale del protomartire in primo piano, ripreso di profilo. Uno sgherro in piedi sulla sinistra, tagliato per metà, entra nella scena con una gamba aggettante pronto a scagliare il macigno fatale. Santo Stefano rivolge un’estrema preghiera alla divinità, mentre Padre e Figlio vegliano, in attesa del ricongiungimento, ritratti in piccola scala in alto a sinistra.