Il tema del cibo è una costante dell’immaginario figurativo di Picasso.
Nel Mangiatore di anguria, realizzato nel 1967, l’uomo raffigurato sembra invitarci, nella postura e nel gesto, ad appagare i sensi e a gustare le gioie della vita. La fetta di anguria, offertaci con gesto sacrale, il ventre messo in evidenza, tondo e quasi simile a un bersaglio, il coccige, che rivela il lato erotico della composizione mettendo in evidenza l’orifizio anale, i grandi piedi e le mani ad artiglio, stanno a significare la concretezza e l’abilità di afferrare tutto quello che la vita ci può offrire: un monito a cogliere l’attimo, momento per momento.
Per contro, vi è anche un altro tema ricorrente nell’iconografia pittorica dell’artista, che appare soprattutto nelle opere del periodo blu: quello della povertà e della solitudine. Ne Il pasto frugale del 1904, per esempio, Picasso, ancora agli esordi della sua attività incisoria, esegue un capolavoro di tecnica e di segno. Qui un uomo e una donna, seduti a un tavolo dove campeggia un piatto vuoto, due bicchieri, una bottiglia e qualche pezzo di pane, mancano di un vero contatto, non si guardano, ognuno perso nei propri pensieri. L’espressione di miseria ed estraniamento forma qui un binomio inscindibile. Senz’altro in quegli anni l’artista doveva essere stato testimone della povertà dilagante che affliggeva l’Europa, segnandolo nel profondo e attivando paure inconsce.
Nel Mangiatore di anguria, all’apice della sua carriera, giunto ormai al tramonto ma ancora nel pieno della sua vitalità, Picasso pare qui esorcizzare i suoi spettri. In un’altra lettura possibile, la forma della fetta di anguria, sembra simile a un’arca che, sorretta dalle esili braccia dell’uomo, diventa un altare, un luogo sacro dove offrire cibo per ringraziare. Picasso forse voleva esprimere questo, o forse non era questa la sua intenzione. Ma a noi piace pensarlo. L’arte serve soprattutto a questo: a farci sognare e immaginare.
Michela Scotti